Screening prenatale delle anomalie cromosomiche mediante analisi del Dna libero fetale nel sangue materno
Aggiornato il 25 Ottobre 2022
I cromosomi (46, uguali a due a due, nella specie umana) sono corpuscoli presenti nel nucleo cellulare contenitori del nostro bagaglio ereditario. Di ogni coppia di cromosomi (23) uno è di origine materna l’altro di origine paterna. Per errori, per lo più casuali, occorsi durante la maturazione delle cellule sessuali (cellula uovo, spermatozoo) è possibile che i genitori trasmettano un bagaglio cromosomico alterato per eccesso o difetto di uno o più cromosomi o di parte di essi. Un tale evento, comportando uno sbilanciamento del materiale ereditario, sarà responsabile di malattie più o meno gravi chiamate anomalie cromosomiche.
L’unico modo che abbiamo per la valutazione dei cromosomi fetali è quello di analizzare direttamente le cellule del feto ottenute mediante prelievo di villi coriali, amniocentesi o prelievo di sangue fetale. Tali tecniche di prelievo sono invasive e, di conseguenza, sono gravate da un incremento della possibilità che la gravidanza si interrotto (in genere si ritiene che l’incremento sia dell’1%).
Per tale motivo le coppie, coerentemente direi, preferiscono analizzare con tecniche invasive solo le gravidanze dove sia stato evidenziato un rischio elevato di anomalia fetale.
Il primo livello di valutazione del rischio è basato sull’età materna: le anomalie cromosomiche a grave conseguenza (ad es la Sindrome di Down) incrementano in modo esponenziale con l’aumento di età della madre (1/1000 a 20 anni, 1/100 a 40).
Dal momento però che le singole fasce di età non sono omogeneamente rappresentate tra le donne in gravidanza (sono molte di più quelle di età compresa tra 25 e 35 anni che non quelle tra i 35 e i 45) ne consegue che nel 5% delle gravidanze con rischio più alto in base all’età materna (sopra i 38 anni) si concentri solo il 30% dei feti affetti da Sindrome di Down, mentre il rimanente 70% nasce da pazienti più giovani ma molto più numerose.
Negli ultimi vent’anni sono state messe a punto metodologie di screening che correggono il rischio stimato in base all’età materna con elementi biochimici ed ecografici strettamente correlati al feto (Bi test, translucenza nucale, osso nasale ecc.). Nel 5% delle gravidanze risultanti a rischio più alto dopo questa valutazione si concentrano il 95% dei feti affetti da Sindrome di Down.
Questo vuol comunque dire dover sottoporre ad accertamenti invasivi il 5% delle pazienti in gravidanza e non essere in grado di sospettare il 5% dei feti affetti da Sindrome di Down.
Negli ultimi anni, grazie agli avanzamenti della biologia molecolare, si sono rese disponibili metodologie di screening non invasivo per le anomalie cromosomiche ad altissima attendibilità.
Tali metodologie si basano sull’analisi del DNA libero fetale che la placenta ha rilasciato nella circolazione sanguigna materna. Il DNA è il contenuto nei cromosomi ed è dosabile nel sangue materno a partire dalla 10a settimana di gravidanza. Utilizzando tecniche assai complesse, ma ormai ben codificate, di biologia molecolare è possibile analizzare il DNA specifico di alcuni cromosomi (21 S Down, 18 S Edwars, 13 S Patau, X e Y per alterazioni dei cromosomi sessuali) responsabili, quando in numero alterato, delle più frequenti tra le anomalie a grave impatto clinico.
I kit di alcuni laboratori consentono anche di analizzare le microdelezioni di alcuni cromosomi (condizioni in genere molto rare ma responsabili di gravi conseguenze per la salute fetale).
Occorre tener comunque presente che mentre per la Sindrome di Down l’attendibilità dell’esame è del 99,9% con un bassissimo rischio di risultati falsamente positivi (il test positivo sarà sempre da convalidare mediante l’analisi su cellule fetali prelevate con tecnica invasiva), quando si ha a che fare con patologie più rare l’efficienza dell’esame tende a diminuire e incrementano i risultati falsamente positivi (la paziente allora si sottoporrà ad accertamento invasivo e avrà un risultato negativo per il riscontro di patologie fetali).
Al momento attuale ritengo che il miglior approccio per l’intercettazione delle anomalie cromosomiche fetali sia quello di effettuare un test ecografico intorno a 12-13 settimane, possibilmente integrato con i valori di un Bi test ottenuto a 10-11 settimane (con questa modalità i due test verrebbero utilizzati alla massima espressione della loro efficienza).
Il test ecografico effettuato al terzo mese di gravidanza non si limiterà alla stima della translucenza nucale ma anche di altri fattori correlati con le anomalie cromosomiche, oltre alla possibilità di una accurata valutazione dell’anatomia fetale per l’intercettazione di anomalie strutturali non necessariamente correlate con alterazioni cromosomiche.
A fronte di risultati rassicuranti penso si possa evitare qualsiasi ulteriore accertamento diagnostico, rimandando un ulteriore affinamento diagnostico all’esame ecografico del quinto mese : è certamente la coppia però che deve decidere se fermarsi o chiedere altri accertamenti.
In caso di un risultato di alto rischio ( > a 1/100 ) credo si debba far ricorso ad un test invasivo di diagnosi prenatale, prelievo di villi coriali o amniocentesi.
Per condizioni di rischio basso ma non completamente rassicurante (tra 1/100 e 1/1000 per la Sindrome di Down, considerato un rischio intermedio) ritengo che, non volendo scegliere in prima battuta l’esecuzione di un test invasivo, si possa far ricorso alla valutazione preliminare del DNA libero fetale nel sangue materno.
Tutto questo, ovviamente, è soggetto ad ulteriori avanzamenti nella possibilità diagnostica: la biologia molecolare fa passi da gigante e i test proposti saranno sempre più sofisticati e completi.
Dottoressa Patrizia Gementi
Dirigente dell’Unità di Ostetricia e Ginecologia presso l’Ospedale Buzzi di Milano
Studio Medico Associato Oldrini e Gementi (Piazza Libertà 2, 20010 Cornaredo MI)
Medical Center Buonarroti (Via Tiziano 9, 20145 Milano)